Cos’è la sindrome della persona rigida? Ecco di cosa si tratta
Sindrome della persona rigida: imparare a riconoscere i segni, quali sono le cause e le terapie
La sindrome della persona rigida, in acronimo anglosassone SPS, è una patologia neurologica caratterizzata da rigidità e spasmi muscolari.
Il quadro sintomatologico associato ad un tale disturbo può in realtà risultare molto più complesso, mentre ad oggi la terapia prevista è finalizzata alla riduzione farmacologica dei sintomi.
Studi più recenti cercano di indagare il ruolo delle immunoglobuline nell’ambito terapeutico, allo scopo di rendere più efficace il trattamento.
Ma da cosa è causata tale malattia, e soprattutto, come riconoscerla?
Leggi anche: Sintomi del diabete: i segnali da non sottovalutare mai
Cause e sintomatologia
Anche nota come sindrome di Moersch-Woltman, questa alterazione si riscontra più frequentemente nelle donne piuttosto che negli uomini.
Si osserva una graduale perdita di neuroni del midollo spinale e del cervelletto con diffuse aree di infiammazione, tuttavia non sono ancora noti i fattori eziologici alla base di tale processo.
Spesso è associata ad altri quadri patologici prodotti da malattie di natura autoimmune, come diabete di tipo 1 oppure anemia perniciosa.
Può rientrare nel contesto delle malattie concomitanti alle forme neoplastiche, spesso persino clinicamente precoce rispetto a tumori mammari, tiroidei o addirittura linfomi.
L’insorgenza dei sintomi è subdola ed il loro decorso è particolarmente rapido: si parte da lievi tremori muscolari fino alla paralisi dei muscoli troncolombari. All’acme della patologia la rigidità si estende anche agli arti.
Questa contrazione induce alterazione delle flessioni della colonna vertebrale nonché deformazione delle articolazioni. Inoltre gli stimoli tattili seppur minimi producono spasmi muscolari generalizzati e dolorosi.
Diagnosi e terapia
Da non confondere con sclerosi multipla o morbo di Parkinson, il fattore che risulta discriminante nella diagnosi è la presenza nel sangue di anticorpi anti-decarbossilasi.
Questi ultimi agiscono bloccando l’enzima e determinando inibizione della sintesi di acido glutammico, un importante neurotrasmettitore.
Tuttavia una terapia ad hoc avviata tempestivamente è in grado di agire efficacemente sui sintomi, pur trattandosi di una condizione cronica.
La terapia farmacologica si avvale di anticonvulsivanti per contrastare l’ipertono muscolare, come le benzodiazepine. Si ricorre spesso ad antidepressivi per gestire le complicazioni emotive e sociali che possono intercorrere secondariamente.
Di recente si sta studiando l’approccio immunoterapico, mirato alla riduzione degli autoanticorpi attivi contro l’enzima decarbossilasi.
Leggi anche: Tumore all’utero e menopausa: un sintomo da non sottovalutare